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...E' solo il mio modo di vedere le cose

di Alessandro Borgogno - 14/3/2005

Il nostro Direttore mi segnala, maliziosamente, un dibattito aperto da tempo sul sottofinale di C’era una volta in America di Sergio Leone, in riferimento alla scena in cui, per strada di notte dopo essere uscito dalla Villa, Noodles (De Niro) vede o crede di vedere Max (Woods) sparire dietro un immenso camion della spazzatura sul quale poi lo sguardo del protagonista, e il nostro con lui, indugiano concentrandosi sulle terribili lame della vite di acciaio che maciullano impietosamente i rifiuti.

E le domande sono: stanno maciullando anche Max? Si è suicidato? O è solo fuggito salendo sul camion? E io ne aggiungerei altre: era proprio Max? O è un ennesimo ricordo di Noodles che tra l’altro, ormai vecchio, fa anche fatica a vedere bene? (Inforca spesso gli occhiali, e, nella scena in questione stringe gli occhi proprio ad indicare la sua incertezza su ciò che sta realmente vedendo).

Ho detto maliziosamente perché sa benissimo, il perfido Direttore, che non posso tirarmi indietro, anche se il film intimorisce, e non posso perché è il mio film preferito, credo in assoluto, e perché l’ho visto e rivisto e ci ho pensato e ripensato e ancora ci penso, come è giusto che sia per uno dei più grandi film della storia del cinema e per uno dei pochissimi veri capolavori assoluti che ci sia stato dato di vedere al cinema negli ultimi… mio dio, venticinque anni!

Il primo punto da considerare è che C’era una volta in america, oltre ad essere un film incredibilmente complesso e affascinante anche proprio per la sua complessità e per le “parti oscure” che lo compongono, è sopratutto un film sulla memoria, e sul ricordo, sulla frantumazione dei ricordi e sulla relatività di qualunque verità, su quanto e come il tempo cambi la nostra percezione dei fatti, e addirittura, nella drammatica eppure naturalissima scelta finale di Noodles, sulla consapevole vittoria del ricordo sulla realtà.

L’altro punto è che, come per tutte le grandi storie, non è data, volutamente, mai una sola spiegazione o un chiarimento troppo esplicito, prima di tutto perché si perderebbe e banalizzerebbe il senso di mistero e di ambiguità che porta con sé una simile storia, e in secondo luogo perché il film vuole assomigliare alla vita, e nella vita non c’è mai una sola spiegazione né mai una verità assoluta.

Assolutamente voluto che il personaggio che esce dalla villa per avvicinarsi al camion sia inquadrato da molto lontano, perché dobbiamo restare con il dubbio, se si tratti proprio di Max o dell’ennesimo inganno. Non dimentichiamo che è uno dei temi centrali e ricorrenti dell’intera storia: da ragazzo Max finge di essere affogato nelle acque dell’Hudson, e poi finge di essere morto per 35 lunghissimi anni. Non può più esserci un finale chiarificatore, per l’ennesima volta non possiamo sapere, come non può saperlo Noodles, se Max sia definitivamente scomparso oppure no.

E il gigantesco tritarifiuti a questo punto altro non è che il simbolo del tempo che tutto rimescola e tutto spezzetta nei ricordi, sempre più frammentati, così come frammentata è l’intera struttura narrativa del film. Il tempo, del resto, è il vero grande protagonista dell'opera, protagonismo dichiarato in una delle prime scene, quando Noodles torna dopo trentacinque anni al locale di Mods (“Cosa hai fatto in tutti questi anni Noodles?” “Sono andato a letto presto…”) e alla domanda “Perché sei tornato?”, Noodles risponde “Ti ho riportato la chiave della pendola”, la reinfila dopo trentacinque anni nella carica del grande orologio, e il tempo riprende a scorrere.

Sono essenziali, per questa lettura, alcune delle frasi memorabili diffuse per tutto il film, ma soprattutto quelle delle ultime scene. Subito prima della festa alla villa, Noodles parla nel camerino con Deborah che gli dice “Siamo due vecchi, Noodles, non ci resta altro che qualche ricordo.” E aggiunge, terribilmente: “E se sabato sera andrai a quella festa, non ti rimarranno più neanche quelli”.

Ma Noodles ci va, e ci va deciso a non rinunciare all’unica cosa che gli è rimasta, cioè proprio i ricordi. Rifiuta la proposta di Max, che vorrebbe usarlo ancora una volta per i suoi scopi, convinto di poterlo sempre indirizzare dove lui vuole, e così facendo rifiuta l’idea di distruggere anche il suo ultimo ricordo. “Sarebbe un peccato vedere sprecato il lavoro di una vita” dice al senatore Bailey continuando ostinatamente a chiamarlo così per non riconoscerlo come Max, ma in realtà sta parlando a se stesso, e si sta dicendo “Sarebbe un peccato vedere sprecato il rimorso e il dolore di una vita”.

Del resto, poco prima, i due protagonisti si sono scambiati le frasi che firmano in modo indelebile l’intero film: di fronte al rifiuto di ucciderlo (che per Noodles significa rifiutare l’ennesimo dolore e l’ennesima delusione, quella fatale, ma soprattutto rifiutare l’idea che Max sia davvero vivo e che tutta la sua vita non sia altro che una serie di falsi ricordi e lui stesso niente più che una delle ombre cinesi della fumeria d’oppio), di fronte a questa apparente negazione della realtà Max gli chiede “E’ il tuo modo di vendicarti?”. “No” risponde Noodles (anzi non lo dice neanche, scuote solo la testa abbassando appena lo sguardo).

E aggiunge: “E' solo il mio modo di vedere le cose”.

Per questo la scena che segue, in strada (con in lontananza le note di Yesterday, perché non c’è una sola virgola casuale in questo film) non vuole altro che ribadirci che ormai qualunque cosa ci capiti di vedere, o di credere di aver visto, altro non è che una realtà parziale e soggettiva, dove i pezzi di verità e i pezzi di menzogna e i ricordi limpidi e quelli distorti sono mischiati insieme senza poterli distinguere, miscelati e triturati in una unica poltiglia esattamente come fa con la spazzatura l’enorme vite di acciaio del camion.

E l’ultimissima scena, che ci riporta alla fumeria d’oppio di trentacinque anni prima e che si chiude con lo straordinario sorriso di Noodles, ci lascia anch’essa la libertà e l’inquietudine di poterla interpretare secondo la nostra personale sensibilità. Per me quel preciso momento, subito dopo l’uccisione dei suoi amici a causa del suo stesso tradimento, attimo di estremo dolore ma anche di estrema verità e al tempo stesso unico attimo di pausa prima che il tempo si rimetta in moto cominciando il suo inesorabile lavoro di distruzione, (chiudendo finalmente il cerchio, dato che il film inizia proprio da lì), quel breve momento, non a caso perfino annebbiato dai fumi dell’oppio, è anche l’ultimo vero ricordo che gli rimane, talmente vero da essere addirittura un ricordo felice.

Ma forse questo è solo il mio modo di vedere le cose.

 

C'era una volta in America, di S. Leone
con R. De Niro, J. Woods, E. Mc Govern – Italia/USA 1984 

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