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L'incubo della vendetta

di Alessandro Borgogno - 12/02/2006

Nel 1972 avevo più o meno sei anni, eppure le olimpiadi di Monaco me le ricordo.

Se dicessi di ricordare anche la tragedia del rapimento e della morte degli atleti israeliani presi in ostaggio dal commando palestinese direi una bugia, però che stesse accadendo qualcosa di brutto era comunque chiaro.

Come spesso accade, sono state poi le cose sapute e lette nei molti anni seguenti a costruire il ricordo di un avvenimento che in realtà non potevo ricordare davvero. Nessuno però si è mai sforzato davvero di farmi (farci) costruire un qualche tipo di ricordo e di conoscenza sui fatti accaduti dopo. Ed è in questo vuoto volontario della memoria e della storia che entra sontuosamente il racconto di Spielberg, con il rigore formale e la capacità narrativa e tecnica che ormai lo contraddistingue qualunque cosa decida di raccontarci.

Spielberg sembra sapere molto bene che i fatti di Monaco sono un vago ricordo rimasto sempre poco chiaro, perché è proprio così che ce li presenta, facendoceli affiorare un pezzetto per volta, proprio come arrivassero dalla memoria di qualcuno, sempre in sospeso fra la cronaca giornalistica e la ricostruzione emozionale.

Perché è quello che gli interessa della tragedia olimpica, e in realtà non è di quello che ci vuole parlare.

Quello che poi ci srotola davanti agli occhi per tutto il film è invece il racconto della vendetta, sistematica e fredda, che un governo e uno stato intero decisero a tavolino e poi attuarono per mezzo di uomini decisi e risoluti più per appartenenza che per convinzione profonda, tanto che poi, inevitabilmente, all’allungarsi della scia di sangue e terrore, iterativa ma via via sempre peggiore, la convinzione comincia a vacillare.

Raccontare il film è inutile, proprio perché è un racconto puro, e si può solo seguirlo e farsi trasportare nell’orrore con la freddezza quasi entomologica che Spielberg mette nel presentarci i suoi insetti umani che si dibattono in una rete sempre più senza via di uscita, in una giostra infernale dove la violenza chiama la violenza, dove i normali dubbi dell’uomo diventano debolezze fatali, dove diventa inevitabile che ad ogni giro si alzi l’asticella un po’ più in alto, aumentando numero di vittime, potenza di esplosivi, quantità di sangue e chiusura di vie d’uscita.

Dichiarare con una storia così che violenza chiama violenza e che la vendetta non aiuta alla soluzione dei problemi sarebbe banale, e anche se il film ovviamente dichiara anche questo, in realtà fa ben altro, di più sottile e di più inquietante. Con un notevolissimo sforzo di equilibrio (che in alcuni momenti diventa il suo limite, forse inevitabile) e di non totale schieramento da alcune delle due parti, riesce però a presentare le motivazioni senza che diventino giustificazioni, le spinte storiche e ideologiche senza che diventino mai alibi per orrori comunque ingiustificabili, finendo per salvare gli uomini, anche se colpevoli di crimini pazzeschi, ma condannando logiche e ragion di stato con poche possibilità di appello.

Inoltre, proprio andando a raccontare in modo così preciso e dettagliato una storia che non ha alcuna versione ufficiale e nessuna ammissione da parte di nessun governo, scoperchia una pentola scottante. In anni in cui da questa parte del mondo la condanna del terrorismo è unanime e generalizzata, Spielberg ci fa vedere con apparente tranquillità come gruppi di uomini, eseguendo ordini di un governo riconosciuto e appoggiato da tutti i governi occidentali, scorrazzarono tranquillamente per l’Europa (guarda un po’, anche a Roma) facendo saltare in aria case, palazzi, automobili. Insomma facendo i terroristi.

Tanto da far dire ai protagonisti cose come: “L’esplosivo è meglio. Uccide e in più terrorizza”.

Cinematograficamente, si direbbe che ormai Spielberg si possa permettere qualunque cosa. Passa con disinvoltura sorprendente da Jurassic Park a Schindler’s List, da La guerra dei mondi a questo Munich e appena finito questo sta girando il quarto fumettone di Indiana Jones. Questo significa avere ormai in mano mezzo e linguaggio cinematografico, e questo, oggi come oggi, credo non riesca a farlo nessun altro regista fra quelli, anche bravi, in circolazione.

In Munich, ancora una volta con un registro diverso dagli altri film, contiene i virtuosismi al suo minimo storico, e quando li usa, per motivi assolutamente funzionali, lo fa senza darlo a vedere, tiene in pugno la narrazione senza farsi mai tremare la mano, infila due o tre scene di suspense purissima senza una sbavatura, cuce un paio di passaggi narrativi apparentemente semplici ma in realtà quasi sbalorditivi, si infila a testa bassa in situazioni di caos totale senza farci mai perdere il filo di ciò che sta accadendo. In parole povere dimostra, alle prese forse con la materia più difficile affrontata fino ad oggi, una maturità artistica davvero invidiabile, realizzando un film altamente spettacolare senza che quasi lo sembri.

Perde qualche colpo solo nella parte finale, un po’ per la necessità di tirare i fili del racconto, un po’ per una tendenza understatement che forse è l’unica cosa che ancora non padroneggia totalmente.

Però è anche vero che proprio nella parte finale dimostra l’originalità del tema e del modo da lui scelto per trattarlo.

Probabile, anzi direi certo, che un film così poteva farlo solo Spielberg, ebreo da sempre convinto sostenitore dell’esistenza dello stato di Israele e anche del suo diritto a difendersi dalle minacce di annientamento.

Come scrisse magnificamente Truffaut parlando di Hitchcock: ”Quest'uomo che la paura ha spinto a raccontare le storie più terrificanti, quest'uomo che si è sposato vergine cinquant'anni fa e non ha mai "conosciuto" altra donna che sua moglie, sì, solo quest'uomo ha potuto mostrare l'assassinio e l'adulterio come degli scandali, solo lui sa farlo e, aggiungo, solo lui ha il diritto di farlo.

Così la sensazione è che solo Spielberg, dopo averci fatto vivere con i suoi mezzi e con il suo stile l’orrore assoluto dell’annientamento etnico della Shoah e il diritto alla sopravvivenza e alla dignità di un intero popolo, solo lui poteva dire in modo così altrettanto chiaro che si può essere ebrei fino in fondo anche non condividendo sempre e comunque tutte le scelte del governo israeliano, che anche all’interno della comunità ebraica ci sono divisioni, posizioni diverse e anche assolutamente antitetiche su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Che probabilmente esiste un diritto alla reazione di fronte alla violenza ma che non può esistere un diritto alla vendetta a qualunque costo.

Forse solo lui poteva dirlo, ma non era per niente scontato che lo facesse. E invece l’ha fatto.

 

Munich, di S. Spielberg
con E. Bana, D. Craig, C. Hinds, M. Kassovitz, H. Zischler
USA 2006
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