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Bamboccioni on the road

di Ilaria Scala - 7/6/2011

Vagammo per ore cercando di ricordare CHI ci avesse parlato bene di questo film. American Life, l’ultima opera di Sam Mendes. Sam Mendes, lo ricordate?, quello di American Beauty. Ci rendiamo conto solo adesso che i titolisti italiani hanno tentato di rinnovare i fasti del successo del 1999 – film da 5 Oscar graffiante inquietante indimenticabile – con quest’opera di tutt’altro spessore, sia per ambizioni che per risultati.

Una coppia-di-fatto di giovani che non si capisce bene che mestiere facciano, forse nessuno, resta incinta. In barba al mito americano dell’indipendenza dalle famiglie d’origine e della mobilità esasperata, la coppia ci resta molto male quando scopre che i genitori di lui – unici aspiranti Nonni ancora in vita – si trasferiranno in Europa prima che nasca il nascituro. La coppia non ci resta solo male, si dispera addirittura. Grida all’egoismo, allo scandalo, perché pensava di aver diritto al welfare auto-gestito del babysitteraggio e dei consigli di puericultura non richiesti. In pratica il film si regge su temi che qui in Europa, o meglio in Italia, quasi ci vergognamo ad affrontare, timorosi che un nuovo Padoa Schioppa ci dia dei bamboccioni. La coppia offesa molla tutto (tutto cosa? E al sesto mese di gravidanza?) e decide di cercare per il Nord America il luogo ideale dove metter radici e far nascere il proprio figlio.

Ne risulta un filmetto on the road che è una sequenza di sketch più o meno riusciti (là vive una sorella depressa, meglio di no; qua vive una coppia di amici schizzati; lì un fratello abbandonato dalla moglie (che onta!); di là una coppia di amici che “sembra” perfetta ma che invece continua ad adottare bambini per non riuscire ad averne di propri (e se fosse: che male ci sarebbe?)), con dialoghi ad effetto intimista-intellettual-originale, con intermezzi musicali à la page, e riprese dei Grandi Spazi Americani, e accenni di melting pot (la quasi Mamma è meticcia). Il tutto senza una struttura, senza un movente forte, senza una conclusione degna. Apparentemente senza scopo.

Tutto appare chiaro quando si scopre che la sceneggiatura è di Dave Eggers e Vendela Vida (sposati tra di loro, ed esponenti apprezzatissimi – soprattutto lui - della nouvelle vague letteraria statunitense). Ecco cos’ha questo film. Un’aura di letterarietà un po’ accademica, didascalica, che gli sottrae realismo. Una patina di autocompiacimento tipico di chi sa scrivere, e pensa che chi scrive un bel racconto possa scrivere anche un bel film, e non ricorda che un film non si deve “scrivere” e basta, ma anche riprendere, montare, doppiare, musicare, eccetera eccetera, e che l’alchimia è quasi magica, ma è tale che nessuna componente è sufficiente se le altre mancano.

Tutto appare chiaro, quando spunta il nome di Dave Eggers (il grandissimo Dave Eggers: lo dico perché non si pensi che non lo abbia letto o che non apprezzi le sue opere. Anzi.). Mi appare chiaro anche CHI mi aveva parlato bene di questo film. Probabilmente giornalisti o spettatori che Dave Eggers lo amano troppo, senza essere in grado di criticarlo (non è un peccato mortale, può succedere). Oppure giornalisti o spettatori che Dave Eggers non lo hanno mai letto e si sono fatti ammaliare dalla sua indiscutibile capacità di infilare un pensiero illuminante, una battuta indimenticabile, in un contesto di superficiale banalità. Non è un peccato mortale neanche questo. Però d’ora in poi sapremo di chi non fidarci. 

 

American Life [Away we go], di S. Mendes
con M. Rudolph, J. Krasinski, J. Daniels
USA 2009

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