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Uomini e Topi

di Alessandro Borgogno - 23/10/2007

Dopo il risultato non del tutto convincente di Cars, la Pixar di John Lasseter rialza la testa, alza il tiro, e fa centro con Ratatouille, un vero gioiello.

Lo fa con due elementi fondamentali: l’assoluta originalità della storia, che non somiglia a nessun altra e non pesca leziosamente negli stereotipi classici né nelle citazioni stucchevoli (come capita a prodotti come Shrek) e l’assunzione di responsabilità del cinema digitale, con il coraggio di innalzare il film dal classico prodotto di animazione che strizza l’occhio a tutte le generazioni possibili (e utili per gli incassi) ad una forma di film autonomo, indipendente, maturo e ormai proprietario di un linguaggio proprio che non è di alcun altro genere.

Non c’è nulla infatti in Ratatouille, a parte le situazioni di assoluta fantasia che ormai non mancano neanche in film con attori in carne e ossa, che possa relegarlo in una singola categoria, per quanto importante.

Ci si dimentica presto, direi quasi subito, di “come” è fatto, e si entra nella storia e nei personaggi esattamente come si farebbe con qualunque altro film.

E questo accade, attenzione, non copiando né scimmiottando il cinema tradizionale, ma attraverso meccanismi propri e originali, attraverso visioni e personaggi che non funzionerebbero altrove, attraverso un’attenzione contemporanea e quasi maniacale sia alla forma che alla sostanza.

La fantasia e l’originalità di storia e situazioni sono talmente sorprendenti da sembrare quasi dovute, ma non lo sono. Solo pensare ad un topolino di campagna dotato di un fiuto fuori dal comune che vuole diventare un grande chef, e che finisce davvero a cucinare per gli uomini in un ristorante chic di Parigi dice già molto, ma su questa idea le invenzioni narrative e visive sono davvero profuse in quantità e qualità sorprendenti, mai clamorosamente bensì sempre in modo sottile e raffinato (come la gastronomia che raccontano).

I personaggi finiscono paradossalmente per essere realistici, nonostante le ovvie e inevitabili esagerazioni grottesche che la storia comporta, grazie ad lavoro di understatement quasi esagerato ma perfettamente in tono con la storia e le situazioni.

E non mancano neanche riflessioni non banali (fatte passare intelligentemente per interposti personaggi) sul piacere del cibo, sugli effetti evocativi degli odori e dei sapori, e perfino sul valore della creatività (su questo argomento è bellissima, e davvero non da film “per bambini”, la frase estratta dall’ultimo articolo del severissimo critico culinario definitivamente conquistato: “C’è più anima nelle creazioni più mediocri di quanta ce ne sia nel nostro definirle tali”).

Inutile lodare ancora la tecnica digitale che ormai gli artisti della Pixar padroneggiano senza limiti, se non per dire che anche sotto questo aspetto la tecnica stavolta non è mai al servizio di se stessa ma sempre, a volte anche umilmente, al servizio di situazioni e scene deliziosamente perfette, dalle visualizzazioni astratte dei sapori degli alimenti agli inseguimenti fra oggetti e interstizi della cucina, dall’apertura panoramica “alla Sergio Leone” sui tetti della Ville Lumiére, agli inseguimenti nelle fogne o lungo i viali Parigini e sui battelli e sotto i ponti della Senna.

E se proprio si deve imputare qualche difetto alla straordinaria storia del topolino Remy, va cercato forse nell’eccesso di misura che in qualche caso limita l’emozione, nella mancanza di scene madri e aperture di racconto dal sapore epico che normalmente si trovano in abbondanza nei film di questo genere.

Ma, per l’appunto, forse la chiave sta nel fatto che ci troviamo di fronte alla nascita di un genere del tutto nuovo, qualcosa di mai visto prima d’ora.

 

Ratatouille, di B. Bird e J. Pinkava
USA 2007

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